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venerdì 8 febbraio 2013

LA LIBERTA' DELLA SCELTA TERAPEUTICA

“Dottore, mi è toccato prendere l'antibiotico perché me l'ha detto il dentista, per prevenire un'infezione durante un'otturazione”. “Sa, ho messo la pomata al cortisone, perché era tanto tanto arrossato”. Frasi di questo genere ne sento spesso, anche da pazienti affezionati alla medicina antroposofica da lunga data. Prescindiamo dal fatto che molte di queste terapie sono “tanto tanto” inutili o dannose (perfino secondo la medicina ufficiale), o comunque inadatte; vorrei trattare in questa sede di chi e come sceglie ogni terapia, e di cosa significa scegliere.
Oggi le possibilità diagnostiche e terapeutiche sono veramente numerose e ampie: viene quasi un senso di ebbrezza di fronte a quanto possiamo capire e agire di fronte a parecchie patologie, che fino a pochi decenni fa dovevano di necessità essere soltanto sopportate. Questo ci dà una sensazione di libertà e di potere, ma forse si tratta più di potere che di libertà. Infatti, oltre ad avere comunque limiti e difetti (che non vorrei trattare in questa sede), queste grandi possibilità tendono a diventare obbligo, paradossalmente simile alla situazione antica in cui di fronte alla malattia si era costretti all'unica scarna possibilità di cura (se pure c'era) e comunque ad aspettare con proverbiale pazienza; si diceva ad esempio: essere costretti al letto. Diventano obbligo, dicevo, per un motivo “filosofico” (epistemologico), perché nella valutazione di esami diagnostici e terapie ci si vuole basare sulla statistica, oltre che sull'abitudine, svalutando la percezione individuale, l'intuizione, l'istinto, il semplice buon senso. Oggi, in ogni indagine, clinica in questo caso, si vuole escludere al massimo l'elemento singolo, soggettivo, considerandolo arbitrario, inaffidabile, fortemente sospetto. Vogliamo grandi numeri per dare valore scientifico ad un'affermazione; esaltiamo l'elemento contabile dei fatti. La cosa ha la sua validità nella misura in cui gli oggetti dell'indagine si possono contare, e dunque sono identici, intercambiabili, non hanno caratteristiche individuali. Così vale piuttosto bene per particelle fisiche, per le molecole in chimica, magari per le gocce d'acqua; ma vale molto meno salendo nella scala degli esseri viventi, per raggiungere diciamo pure una validità bassa per quanto riguarda l'uomo. Consideriamo ben efficace un farmaco che funziona nel 70 % dei casi; ma ci meraviglieremmo non poco se statisticamente tre mele su dieci invece di cadere sulla saggia testa di Newton se ne andassero a spasso per il cielo. Questo chiaramente perché i fattori che influenzano ogni fenomeno che riguarda un uomo, come sappiamo, sono tanti, proprio tanti: dalla sua costituzione fisica, animica, spirituale, fino all'ambiente in cui ha la sua esistenza (possiamo dire l'universo...) e alla sua biografia nel senso più ampio.



Ciononostante in medicina si tiene sempre più conto dei risultati statistici delle indagini, cioè si guarda all'uomo come se fosse una particella, identica a tutte quelle della sua specie. Perciò le indagini, eseguite nel famoso “doppio cieco”, cioè con pazienti ed esecutori all'oscuro di cosa stanno facendo (se usano farmaco o placebo inerte, ad esempio), vanno per la maggiore, e i relativi risultati diventano sempre più un obbligo di comportamento per pazienti e sanitari. Cosa ne è della libertà (oltre che dell'etica)? Si applicano le linee guida, i protocolli diagnostici e terapeutici, vale a dire che ogni caso viene automaticamente inserito in una categoria, e che per quella categoria gli esami e le terapie da effettuare sono prestabiliti; che il medico, l'infermiere, ecc. diventano tecnici esecutori con margine decisionale sempre più ridotto. L'essere umano con nome e cognome diventa “un diabete”, “quell'infarto del letto tale”, e gli vengono praticati quegli atti medici che “nella maggior parte dei casi” risulterebbero i migliori. Estremizzando: già solo guardare in faccia questo uomo trasformato in paziente potrebbe disturbare l'esito tecnico, inserendo elementi emotivi e individuali non desiderabili. Gli elementi soggettivi vengono tollerati, direi quasi solo per pietà, ma non hanno alcun legame con la logica del susseguirsi delle azioni mediche. Paradossalmente anche un uomo massimamente crudele, o una macchina, potrebbe funzionare come terapeuta, purché ubbidisca ai protocolli.
Su questa via di pensiero concedetemi la barzelletta del signore che si fa visitare dal suo medico, il quale afferma: “Guarirete certamente!”. Il paziente ribatte: “Ma come potete esserne così sicuro?”. E il medico:”E' matematico: nel suo caso se ne salva uno su cento, e me ne sono già morti 99!”.
Voci in contrasto con questo clima gelido e meccanicistico ci sono, anche se per ora costituiscono una minoranza, una nicchia. Cito ad esempio i rigorosi ed equilibrati studi di Kiene (1).
Se usciamo da questo freddo ambito scientifico riduzionistico, da cui l'elemento umano è totalmente sganciato, e consideriamo l'ambito giuridico, vediamo che qui l'atmosfera è più variegata. Da un lato le leggi sono sempre più numerose (sono tante in generale, ma qui le vediamo in ambito medico) e quindi prescrivono come comportarsi sempre più nei particolari, restringendo dunque i margini di libertà; dall'altro però sono presenti alcune “prescrizioni di libertà”. Appare emblematico l'articolo 32 della Costituzione della Repubblica italiana: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in alcun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Non mi dilungo in dissertazioni giuridiche, poiché non sono qualificato per questo; noto solo che questo approccio invita a maturare la libertà di scelta e che basterebbe applicarlo per affrontare bene e apertamente il problema.
Ribadisco che vorrei cercare di prescindere il più possibile, anche se ciò non è facile, dal giudizio sulla singola scelta: che sia, o sia considerata, migliore o peggiore, più giusta o sbagliata, dipende a sua volta da molti fattori, soggettivi se non addirittura arbitrari, che lascerei sullo sfondo della nostra scena.
Nel nono capitolo de “La filosofia della libertà” Rudolf Steiner (2) descrive i vari motivi che sono alla base dei comportamenti umani, e noi possiamo riprenderli e applicarli alla scelta terapeutica, combinando tale elemento di pensiero col volere portato a tutta prima dall'istinto e col sentire delle emozioni correlate.
Si parte da una motivazione dettata da egoismo semplice e capriccioso: cerco il mio vantaggio immediato, anche a costo di danneggiare il prossimo; in ogni scelta il ragionamento (pensiero) tende a essere servo dell'impulsività (volontà, irrazionale), e la libertà è solo apparente, in quanto ubbidisco appunto all'istinto, come prigioniero, con coscienza in stato di sonno. Beninteso che, tra gli istinti, centrale è qui quello di sopravvivenza che ha ovviamente una sua funzione rispettabilissima. Esempio di efficacia pura di tale istinto è quando si allontana velocemente il dito che si è scottato. Il ragionamento cosciente segue il gesto riflesso e non può che confermarne la bontà, a posteriori.
In ambito terapeutico possiamo accostarvi le scelte obbligate: o dettate dall'urgenza e gravità, da “pronto soccorso”, spesso totalmente giustificate e efficaci, compiute da me, o anche da altri con più o meno completa mia passività, fino al caso estremo dello stato di coma; però anche scelte in cui mi adeguo in modo acritico a “ordini” altrui, col fine di solito correlato che il sintomo scompaia immediatamente. Dico il sintomo, più che malattia, in quanto qui, anche in assenza di gravità o urgenza, l'attenzione di paziente e medico tende a essere catturata dall'aspetto superficialmente visibile e immediato della situazione. Chi comanda qui di solito, dietro al ragionamento un po' infantile, è quella sorta di paura del male (sentire), mista a senso di onnipotenza rivendicativa, per cui pretendo che sia stroncato, eradicato, annientato all'istante, possibilmente senza fatica, con minimo sforzo e senza mutare per nulla le mie comode abitudini. Qui vi è la convinzione o meglio il forte desiderio sottinteso che il karma non esista , che non vi siano conseguenze ulteriori per ogni atto compiuto e per ogni sintomo scomparso, che la partita sia chiusa ora e per sempre. Quanto cortisone per far sparire innocui e fugaci arrossamenti! Quanti antibiotici per situazioni di infezione virale, in cui la stessa medicina ufficiale ne sconsiglia l'uso! Quanti costosi esami scaramantici tanto frettolosi quanto inutili!
Un seconda possibilità è di ubbidire a una regola, presa come legge, o meglio a una dottrina, a una scuola che diventa l'autorità; così pure seguire un medico o comunque un curatore verso cui si sviluppa il sentimento forte della fiducia, che può arrivare ad essere cieca. Tende a prevalere il sentire emotivo sull'istinto, con corrispondente coscienza sognante. E' il mondo dei piccoli dépliant o grandi prontuari, comunque adatti a curare “tutto”, con una logica forse coerente, ma soprattutto fideistica, dove gli elementi sperimentali eventuali soggiacciono a un clima di fede: così si fa la scelta “giusta”, comprovata, inappellabile; e non cambia la sostanza se si segue la dottrina scientifica ufficiale o una totalmente “eretica”, o addirittura se la corrente di pensiero seguita è quella del non curarsi per nulla! Prevale l'elemento della continuità; l'obbedienza resta totale e immutata, spesso indipendentemente dal fatto se si hanno ottimi o pessimi risultati... Oppure sorgono contraddizioni e conflitti se sono in campo più persone o scuole di pensiero, in quanto è difficile ubbidire a più padroni: prendo l'antibiotico perché me l'ha ordinato lo specialista, ma poi l'omeopata mi sgrida; o viceversa: come posso curarmi antroposoficamente se il medico mutualista non è d'accordo? In questi casi è come se adorassi una dea che può essere spietata fino a richiedere sacrifici umani. E per servire fino in fondo quella precisa dea mia padrona sono disposto a contrappormi perfino violentemente a chi adora un'altra dea-dottrina, oppure vado in crisi e non so più scegliere (in realtà non ho scelto nemmeno prima). Più ubbidisco ciecamente e meno è presente un atto di decisione mia, di scelta desta. Se mi comporto “come fanno tutti”, è perché considero totalità quella che è solo forse una maggioranza in una data epoca, e dicendo “è normale” celo il fatto che seguo una “norma” tra le tante possibili.
Come elemento che può anche essere positivo, sono disposto a rinunciare a un qualche benessere immediato per guadagnare guarigione più generale e profonda in seguito, in qualche modo promessa o lasciata intendere dai miei luminari. E per ubbidire a chi mi porta tale dottrina posso anche ridimensionare il mio egocentrismo, e cogliere quegli elementi morali sociali presenti in essa, o anche nella legge giuridica vigente: accetterò di comportarmi in modo da non contagiare altri con la mia malattia infettiva, o di rinviare un trapianto per non dover provocare la morte di chi mi dona l'organo, per citare solo due esempi eclatanti.
La terza possibilità è scegliere io stesso la mia dottrina per curarmi; speciale in quanto scelta da me stesso, per me solo, tra quelle esistenti, o addirittura ideata da me stesso. In questo caso l'elemento individuale compare con energia, ma mi trovo limitato nella mia libertà dall'obbligo di assecondare la dottrina che ho comunque scelto. Notiamo che il tema della scelta terapeutica è tra quelli che muove più direttamente l'egoismo, in quanto è forte la spinta a voler cessare di soffrire; il resto del mondo viene dopo, a una bella distanza... In altri ambiti forse ci si può concedere più facilmente comportamenti morali più rispettosi del prossimo. Infatti anche in questo terzo caso il motivo è sempre egoistico, talvolta più ancora, ma con una base concettuale più importante e ampia. La mia decisione diventa ricca di discorsi esplicativi sul perché della decisione stessa e della scelta di quella particolare corrente curativa. Non chiedo al terapeuta di ubbidirgli, ma piuttosto che mi ubbidisca lui! So io cosa è giusto, non lui. La coscienza è desta e attenta, pronta a cogliere lacune, errori e incoerenze, proprie o soprattutto altrui. Sono finalmente convinto della mia decisione e uso ampiamente il pensiero logico; ed effettivamente la terapia può essere più aderente alle necessità e meno routinaria. Salvo che dietro al pensiero che spadroneggia rispuntino paure, ansie e dubbi mal sottomessi, anche importanti, che forse mi possono spingere ad esasperare l'attenzione in modo ossessivo, perennemente insoddisfatto, che vuole più “capire” che guarire. Vi sono pazienti che mi dicono:”Vorrei capire il mio disturbo...”, a cui rispondo che mi accontenterei di guarire, rinunciando a capire!
Ma possiamo andare oltre, seguendo “Filosofia della libertà” come pratica, tra l'altro con l'aiuto dei sei esercizi fondamentali (3). Vedo che il pur prezioso pensiero logico può gradualmente emanciparsi e fecondarsi con la pura intuizione; riesco a vedermi “da fuori” del corpo fisico, proprio mentre scopro le motivazioni che mi muovono più dall'intimo, non più dipendenti dalla contingenza esterna; e così in ambito terapeutico vedo che il concetto di cura a poco a poco si metamorfosa, che non solo mi interessa meno il sintomo apparente, ma nemmeno cerco più la guarigione solo fisica, con semplice scomparsa dei sintomi: cerco una guarigione in senso ampio, che sia anche un passo sulla strada della vita. Qui compare più fortemente l'elemento morale, e la mia via di guarigione, non solo non passa per un danno diretto ad altri, ma nemmeno per un sottrarre risorse che potrebbero servire alla salute generale, o per un allontanare il male da me caricandolo sul prossimo. La mia cura non solo tiene conto, ma addirittura implica sempre più la cura di chi mi circonda, dell'ambiente e della Terra. La salute cui aspiro diventa anche sociale, come peraltro afferma anche la definizione di salute dell'O.M.S., che io trovo moderna ed evoluta, purtroppo ancora non sufficientemente messa in pratica (4).
A questo punto posso osservare con spregiudicatezza la mia scelta terapeutica, che comincia ad essere, in parte almeno, veramente più libera, e serenamente notare, e per così dire “concedermi”, quanto in essa vi è sicuramente ancora di istintivo, emotivo, razionale; o anche voluto, sentito, pensato; quanto ho seguito il capriccio del momento, quanto una regola stabilita, quanto una scelta cosciente personale; quanto pretendo il benessere come piovuto dal cielo e quanto lo costruisco tramite sforzo per migliorare me stesso. Distinguo pure quanto vi è di conseguente e coerente (col rischio che si riveli abitudinario e rigido) da quanto vi è di nuovo, creativo e curioso (a rischio superficialità immatura, come chi salta da un terapeuta all'altro pasticciando tante terapie). E infine quanto ho dormito, sognato e quanto sono stato desto nella mia scelta, e quanto ho ampliato la coscienza a un livello tale che mi permetta di dominare istinti, paure, ansie e panico, eccesso di orgoglio o sottomissione, fiducia cieca o diffidenza sospettosa, senso di onnipotenza o di scoraggiamento, forza o debolezza. E facendo questo riesco ad apprezzare qualità e pregi di ogni scelta, pure coi suoi limiti, e sono soddisfatto profondamente notando almeno qualche elemento di mia coscienza, che almeno un po' domino (ad esempio) paure e abitudini, che “fin qui ora ci sono arrivato”. Ad esempio: me la sento questa volta di non prendere l'antibiotico, per istinto, perché me l'ha detto la tale persona, ecc.?
Scelgo il medico e il percorso diagnostico e terapeutico in modo che possa crearsi un alleanza medico-paziente: il medico, con la sua competenza, chiarisce la situazione e presenta le opportunità con vantaggi e svantaggi, segue e incoraggia l'evoluzione dello scegliere, consiglia con rispetto e comprensione per il paziente; e quest'ultimo decide, cioè sceglie, in un clima stimolante di forte volontà di guarire (agire, ma senza accanimento) e di accoglimento del karma della malattia (intenso “subire”, ma senza passività)(5). Non puntando alla scelta giusta in assoluto, astratta, ma a quella più adatta e possibile in quel momento Allora può crearsi una risposta alla domanda terapeutica come espressione di un pensare puro, compenetrato di volontà (e riscaldato dal sentire), che si tradurrà in una scelta “giusta” in senso superiore, unica, in realtà geniale, utile probabilmente per stare meglio ora , ma pure sicuramente necessaria per guarire in senso più ampio da una malattia che si è rivelata esperienza arricchente, che però ormai è superfluo ripetere in futuro, essendoci emancipati da essa e potendo così procedere oltre nella via biografica, similmente a una tappa superata nello studio scolastico. Questo può valere per un disturbo lieve e fugace, quanto per una malattia grave, lunga, e perfino per l'incontro col forte dolore e con la morte (6).
Da questa visuale “dall'alto” è chiaro come il prendere l'antibiotico o meno, utilizzare il medicamento naturale, o antroposofico, o altro, forse sopportare un po' di dolore ovvero optare per un intervento chirurgico, risulta solo un piccolo particolare nell'ampiezza della scelta per il proprio destino. Trovo più importante che si proceda nella maturazione complessiva della coscienza, dal che discenderanno ottime scelte, piuttosto che ubbidire a una regola terapeutica fosse pure antroposofica, che io prediligo, ma accolta ciecamente come dogma. Queste scelte mature potranno sembrare, osservate superficialmente, simili alle scelte istintive d'impulso, ma a un esame più attento si nota come la possibile immediatezza della scelta libera proviene da un livello assai più profondo che comprende e supera, non ignora né esclude tutte le tappe di coscienza descritte più sopra e le facoltà umane riassumibili nel pensare, sentire, volere. Ciò è piuttosto accostabile ad una creazione artistica.
Vediamo come siamo lontani dall'oggettività che prescinde da noi stessi, di cui parlavo più sopra; siamo invece perfettamente aderenti alla realtà nella sua molteplicità oggettiva mentre partecipiamo e ci coinvolgiamo pienamente col nostro soggetto, secondo l'approccio scientifico goethiano. Qui, pur essendo un po' “scienziati” di noi stessi, spunta una sorta di gratitudine per la vita che ci ha portato le esperienze, pure difficili e dolorose, che hanno reso possibile muovere passi su questo lungo percorso.
Notiamo anche che quanto detto può valere altrettanto per altri ambiti nella nostra vita, per esempio la scelta di come alimentarsi, vestirsi, abitare, lavorare, coltivare rapporti sociali e affettivi, interessi e così via; in pratica per ogni campo della nostra esistenza, ritornando così a quanto esposto compiutamente in modo generale in “Filosofia della libertà”.
A mio parere un terreno di incontro e approfondimento su questo tema è l'Associazione italiana pazienti di medicina antroposofica (AIPMA), a cui ci si può rivolgere se interessati (7).


Note:
(1) Helmut Kiene, molte pubblicazioni prevalentemente in tedesco o inglese; in italiano è uscito: Medicina complementare e medicina accademica, IPSA editore, 1999
(2) Rudolf Steiner, La filosofia della libertà, Editrice antroposofica.
(3) Rudolf Steiner, Athys Floride, I sei esercizi fondamentali, Editrice antroposofica.
(1) La definizione di salute recita: “Non solo assenza di malattia, ma stato di completo benessere fisico, psicologico e sociale.”
(2) Cito ad esempio, a questo proposito, il movimento etico “io non costringo, curo” (non di matrice antroposofica), presente su internet.
(3) Interessante il concetto di autonomia biologica, nell'articolo di Carmelo Samonà: Considerazioni sull'eutanasia, Rivista Antroposofia, n.1, gennaio-febbraio 2007, pag.7.
(4) AIPMA, presente su internet e al n.3401005091.

Fonte: http://www.rudolfsteiner.it/articoli.html